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Unità pastorale Poviglio


La domandona di giugno

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Ma non fermarti al titolo: datti tempo e pregaci su!


La pandemia: sfida drammatica e occasione preziosa

Le vostre riflessioni...

Ho letto la riflessione sulla pandemia. Sinceramente sarò un po’ duro, ma penso che la chiesa non ha capito dove sta sbagliando o non vuole capirlo. Non è una crescita della laicità il problema, è una perdita di valori al interno della chiesa stessa secondo me, e si vede bene con la distruzione dei monumenti di questi giorni. Non ci sono parole dure o prese di posizioni forti, anzi, si vede spesso il contrario: chi alza la voce viene isolato (qui secondo me ci sono un paio di accordi stupidi fatti dalla chiesa con vari stati che sarebbero da analizzare); ecco perché secondo me in occidente cresce molto l' islam a differenza della chiesa, Questa non distingue più il cercare il dialogo con il farsi schiacciare. Siii, bello la chiesa che fa le dirette su facebook, però dove è finito il sostegno attivo alle comunità? questo è passato in secondo piano per tutta la pandemia.
Il virus è qui con noi, un ospite sconosciuto. A distanza di alcuni mesi dalla sua apparizione, esso ha subito alcune mutazioni. Gli scienziati non sanno ancora come si svilupperà la pandemia nel prossimo futuro, né quando essa potrà dirsi superata. Il virus non è soltanto un ospite imprevisto è sconosciuto, ma è un ospite mortale. Ci siamo trovati impauriti e smarriti come i discepoli del Vangelo. Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci tutti sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati. Il consiglio del Papa per vivere meglio questi giorni difficili: capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro. Dobbiamo trovare la concretezza delle piccole attenzioni di avere verso chi ci sta vicino, la famiglia, un amico e persone sole. L’immagine del Papa nella piazza San Pietro deserta è stata la più efficace di questi mesi; come il suo pellegrinaggio a piedi al Crocifisso di San Marcello al Corso e a Santa Maria Maggiore. Ha chiesto al Signore di fermare l’epidemia: “Signore fermala con la Tua mano”. Ha pregato per questo. Papa Francesco ha rivolto infine l’invito alla speranza, rivolto anche a chi non crede. Tutti sono figli di Dio e sono guardati da Lui. Anche a chi non ha ancora incontrato Dio, chi non ha il dono della fede può trovare lì la strada nelle cose buone in cui crede. Può trovare la forza nell’amore. Uno può dire “non prego perché non credo”, ma nello stesso tempo può credere nell’amore delle persone che hai intorno e lì trovare la speranza. In questo periodo ho notato che i minimi gesti che a volte si perdono nella quotidianità, gesti di tenerezza, di affetto, di compassione, sono molto importanti; come una telefonata... sono gesti di attenzione ai dettagli di ogni giorno che fanno si che la vita abbia un senso. Ci deve essere una comunicazione, ascoltarsi è importante, perché si comprendono i bisogni dell’altro, le sue necessità, desideri. La consolazione deve essere un impegno di tutti.
Davanti alla morte ho capito cosa conta davvero. Mons Derio Olivero, Vescovo di Pinerolo. E’ stato in rianimazione per 40 giorni a causa del Covid-19 (da Rivista Credere n. 25 EP)
Attaccato a una macchina per respirare, quando sembra che la fine della vita non sia solo un’idea astratta ma una soglia concreta che si può sfiorare con mano, chissà quali volti ti passano davanti e come ti appaiono gli anni alle tue spalle. E chissà se ne esci - se non proprio migliore -almeno più consapevole. Tanti, troppi italiani passati attraverso questo calvario non ce l’hanno fatta e non l’hanno potuto raccontare. Ma monsignor Derio Olivero, vescovo della diocesi piemontese di Pinerolo, è stato fortunato. E capisci che la sua disponibilità a lasciarsi intervistare non è solo una nota caratteriale, ma anche una necessità, l’urgenza di condividere ciò che ha capito dopo aver attraversato questa roulette russa dell’umanità che abbiamo chiamato pandemia. Monsignor Olivero ha contratto il Covid-l9 una decina di giorni prima del suo 59° compleanno, è stato 40 giorni in ospedale tra la vita e la morte. E quando il peggio è passato, ancora nel reparto di terapia intensiva, con il respiro fiaccato, ha rilasciato una breve dichiarazione in cui diceva: «Ho capito che due cose sono veramente importanti nella vita: la fiducia in Dio e le relazioni».
Oggi è tornato a casa e sta riprendendo lentamente i suoi impegni pastorali. Sull’esperienza che ha vissuto riesce anche a scherzarci su: «Tra Messe, cresime e celebrazioni varie sicuramente ho preso il virus sul “posto di lavoro”: dovrei farmi dare l’indennità!». Sulle cose importanti, però, è tremendamente serio e si percepisce che «aver passeggiato con la morte» lo ha toccato in profondità come credente e come pastore.

ESISTIAMO PERCHÉ AMIAMO
«Il termine “relazioni” può sembrare astratto ma in realtà è molto concreto», mi spiega. «La cultura “pre Covid” è incentrata sull’individuo: il soggetto è pensato come qualcosa che può esistere senza le sue relazioni. Ma questa era la società di prima… Dobbiamo capovolgere il modo di pensare: non siamo padroni delle cose e del mondo, non lo siamo neanche della nostra vita, il virus ce lo ha mostrato chiaramente. Siamo in relazione con la terra e con le persone, siamo legati e dipendiamo gli uni dagli altri. Inoltre, tra noi come individui e le istituzioni non c’è il vuoto, ma c’è la comunità degli umani. Questa idea a livello sociale era praticamente scomparsa, ora il suo ruolo va recuperato e valorizzato. “Io sono tutto ciò che ho incontrato”, ha detto qualcuno. È un concetto bellissimo! Noi esistiamo grazie ad altri».

AL COSPETTO DELLA MORTE
Un uomo sano e attivo all’improvviso si trova a guardare occhi negli occhi il limite della sua esistenza. Che significato assumono le relaz1oni m quel momento? «L’esperienza dell’avvicinarsi a morire», risponde con disarmante sincerità don Derio, «per me è stata come sentirmi evaporare, sentire che tante cose pur importanti -i progetti, le cose da fare, persino il mio corpo - cadevano, perdevano consistenza. Alla fine restavano, come nocciolo duro che definiva il vero “me stesso”, solo due cose: il sentirmi davvero affidato alle mani di Dio e i tanti volti con cui ho costruito negli anni delle relazioni. Mi sono passati davanti gli amici più cari, i collaboratori e anche persone scomparse che sono state fondamentali nella mia vita, come ad esempio i miei genitori o il mio maestro spirituale, il rettore del seminario di Fossano, don Mario Picco. Ecco, questi volti non evaporavano, restavano consistenti, veri e reali come fossero li accanto a me». E tra ammalati che stanno fianco a fianco e temono il medesimo destino, che tipo di relazione si sviluppa? “Ho passato quattro diversi reparti Covid, a seconda della gravità della malattia. All’inizio, quando potevo parlare, ho conosciuto Remo, con cui abbiamo fatto amicizia. Mi ha raccontato la sua storia, molto triste: anche sua moglie e suo figlio erano ricoverati per Covid. Più avanti ho saputo che la moglie non ce l’ha fatta, è morta… Lui e il figlio invece sono sopravvissuti. Mi sono ripromesso, appena sarà possibile, di andarlo a trovare. Poi sono stato intubato e infine tracheostomizzato. Accanto a me c’era Mario. In quelle condizioni non abbiamo mai potuto parlare, ma quando sono stato meglio sono passato a salutarlo”. “Tanti pensano”, aggiunge mons. Olivero, “che quando si è intubati si dorma sempre, sotto l’effetto dei sedativi. In realtà, ci sono fasi alterne: a volte si è anestetizzati, altre volte si è svegli e consapevoli. Gli infermieri mi hanno detto: “Lei è stato un paziente difficile, ma simpatico”. Perché normalmente le persone intubate, quando sono sveglie, guardano il soffitto prostate. Io invece volevo a tutti i costi parlare anche se non era possibile. Alla fine si sono rassegnati a darmi una lavagnetta su cui scrivere, per dialogare così con loro”. Mons. Olivero è ancora sotto osservazione. Fa fisioterapia per ripristinare il tono muscolare ed esami su esami per verificare che il virus non abbia lasciato strascichi o complicazioni. Fa un po’ strano, quindi, chiedergli se c’è una lezione positiva da trarre da questa pandemia.

COSÌ SI PUÒ CAMBIARE
Don Derio, però non si tira indietro: «Tre cose dovremmo imparare, a mio giudizio», dice. «La prima è smettere di “usare” le cose, le persone, il mondo, ma provare ad ascoltarle, contemplarle, rispettarle e dialogarci. La seconda è vivere la fede in relazione, e non più in maniera individualistica: il “prendere la Messa” talvolta è vissuto come una pratica che riguarda soltanto me stesso. Da gesto di devozione privata, invece, deve diventare sempre più una esperienza di comunione, con Dio e con i fratelli: non più “vado a fare la comunione”, ma “vado a fare comunione”. Il terzo aspetto, infine, e imparare che tutto è dono. Il regalo è una cosa che poteva non esserci, eppure c’è. Ed è per te. Il fatto che io oggi respiro e un regalo! E questa non è una sottile metafora, è la concreta realtà. Un credente sa per fede questa verità, ma poi dovrebbe imparare a metterla in pratica». A proposito di “fare la comunione” o “fare comunione”, monsignor Olivero alla vigilia della ripartenza delle Messe con il popolo aveva scritto un breve decreto per la sua diocesi in cui affermava: «Un sacerdote non può presiedere l’Eucaristia se non cura le relazioni, altrimenti l’Eucaristia diventa artificiosa e formale». Un’affermazione forte, senza giri di parole curiali. Gli chiedo di raccontarmi di più. E lui spiega: «Ho voluto scrivere queste cose per ricordare che, in realtà, le relazioni sono fondamentali sempre, non soltanto nell’emergenza dell’isolamento. Vale anche per la Chiesa: una comunità che fa tante cose, proclama verità, mette in moto progetti, ma non cura veramente le relazioni e non crea un clima fraterno tra i suoi membri, non è una vera comunità. E non celebra veramente l’Eucaristia. Perché nel rito dell’Eucaristia viene trasformato solo ciò che viene offerto: questo vale per ciò che succede sull'altare, per le ostie e il vino, ma vale anche per tutto il resto. Se vai a Messa e non metti sull’altare qualcosa dite, non avviene niente!». Quello della “relazione” è un tema caro a monsignor Olivero da prima del tunnel della malattia. Nella sua ultima lettera pastorale, intitolata “Vuoi un caffè?”, scrive che la relazione vive di fiducia e di gratuità.

UNA CHIESA RIPIEGATA SU DI SÉ
Nella Chiesa, gli chiedo, si è sempre rimasti fedeli a questi due capisaldi?. «A mio giudizio, Siamo carenti su due aspetti: intanto domina ancora l’idea che solo al nostro interno esista la salvezza, mentre fuori dal nostro piccolo giro ci sia il vuoto e la disperazione. Non abbiamo fiducia nella bellezza e nella bontà di chi appartiene ad altre confessioni cristiane o altre religioni, non abbiamo fiducia nei non credenti, nei non praticanti o nei cosiddetti “irregolari”. Siamo una Chiesa troppo ripiegata su di sé, che diffida di tutto ciò che non è se stessa. Invece dobbiamo capire che Dio è all’opera dove la gente vive, ben al di fuori dei confini della Chiesa. Come ha detto bene un mio amico, dobbiamo diventare “non una Chiesa che va in chiesa ma una Chiesa che va a tutti”. Per ciò che riguarda la gratuità, invece, siamo carenti nell’ambito pastorale: la tentazione è di guardare sempre al risultato a breve termine. Invece bisogna ragionare “a lungo termine” e “a fondo perduto”. A me capita spesso di fare incontri sull’arte, in cui commentiamo insieme un dipinto. Sovente la gente mi chiede: “Ma con tutti questi incontri, quanta gente in più viene a Messa?”. Questa è proprio la domanda sbagliata. Perché lo scopo non è “contabilizzare” ogni cosa. Se nella pastorale qualcosa e veramente importante, allora è come un gesto d’amore: gratuito. Lo devi fare con pazienza e un pizzico dl sogno». Papa Francesco ha spesso utilizzato il termine sogno per parlare del rinnovamento ecclesiale. Anche monsignor Olivero ha qualche sogno per la Chiesa italiana? «Intanto, mi piacerebbe che noi cristiani fossimo persone che comunicano fiducia, capaci di credere ancora alla vita, pur avendone toccato i limiti. Poi è importante ritrovare una certa gioiosità: ricordo una donna africana che, pensando alle nostre società europee, ebbe a dire: “Avete cibo quotidiano troppo abbondante e feste così misere, siete tristi!”. Inoltre, dovremmo conservare sempre umiltà e spirito di ricerca: la verità non è ciò che so già, ma ciò che non so e sto ancora cercando. Per mantenere vivo questo spirito di ricerca, infine, serve una “rete di complici”: persone che ci provano davvero e si danno coraggio a vicenda nel cammino».
Eravamo come un treno ad alta velocità lanciato in una folle corsa, senza neanche sapere verso quale destino fosse diretto. Nessuno riusciva più a trovare il pulsante di arresto, nessuno che avesse la capacità di dominarlo. Anzi, si era arrivati al punto che non interessava più a nessuno governarlo o arrestarlo. E poi accadde qualcosa. Si videro persone rovinare le une sulle altre, a centinaia, a migliaia... La gigantesca motrice si era improvvisamente inceppata e fu una catastrofe con un grande sconquasso di ferraglie, coinvolgendo tutti i vagoni. Si scoprì che la causa dell'arresto era stato un vermiciattolo appiccicoso, un piccolo parassita invisibile a occhio nudo, un virus da niente, ma tanto insidioso e malefico. E tutti si fermarono e rimasero imprigionati tra le lamiere. E mentre si viveva questa angosciosa situazione, affiorò spontanea una domanda. Quando il vermiciattolo sarà rimosso e il diavoletto sarà sconfitto, cosa succederà? E quando il treno ricomincerà a muoversi che cosa sarà di noi? Come sarà la nostra vita dopo? Possiamo solo augurarci che il ricordo della lunga inattività e prigionia ci faccia comprendere quanto sia bello fermarsi e vivere un giorno intero con i nostri cari. E sarà un giorno che chiameremo domenica. E che la forzata vicinanza per tanto tempo sotto lo stesso tetto con le stesse persone, parlando, guardandosi negli occhi, telefonando ai parenti lontani, ci faccia riscoprire il valore della famiglia. E il fatto di esserci accorti di quanto siamo fragili e limitati e che basta tanto poco per bloccarci e per metterci a terra, faccia crescere in noi quella grande virtù che si chiama saggezza. E il vedere tante persone che non si sono fermate per soccorrere e assicurarci i servizi essenziali faccia crescere in noi il senso della gratitudine. E ripensando poi al sistema finanziario che abbiamo creato e che ci stava schiacciando e che è bastato un niente per mandarlo in tilt, ci faccia capire che è necessario rimettere al centro l’uomo, perché solo così avremo modo di incontrare la giustizia e l’umanità. E se dopo tutto questo. nelle nostre case, nelle nostre famiglie e intorno a noi noteremo dei vuoti e delle persone che non ci sono più, auguriamoci di riscoprire che il legame che c'era tra noi è più forte dello spazio e del tempo e che questa comunione ci faccia ritrovare Dio.
Già porre la domanda in termini del dopo non sarebbe troppo corretto perché il dopo riguarda anche il presente. Il significato che diamo a ogni giornata, le occupazioni quotidiane, i gesti, i pensieri, le preghiere, la solidarietà, tutto è importante per guardare alla ripresa della vita normale. Ma quello che viviamo non è forse anch’esso normale? Tendiamo a identificare questo tempo che stiamo vivendo come un fatto straordinario; un po’ come quando si apre una parentesi e quello che ci mettiamo dentro non è importante come quello che sta fuori. Di fatto, nella lettura ad alta voce spesso lo omettiamo. Me se questo tempo è tempo fra parentesi, è forse tempo inutile? Tempo sprecato? Tempo insensato: che non ha significato? Di certo no. Ogni tempo è kairos, tempo di Dio, in cui agisce la sua grazia. Questo tempo è come una lunga quaresima; un tempo in cui abbiamo visto, forse da vicino, forse dai nostri schermi, la sofferenza e la morte, la dedicazione e la generosità. Non può essere tempo inutile nell’attesa del tempo utile. Utile per cosa, poi? Forse per ritornare alla vita di prima come se non fosse successo niente? Come se non fosse stata messa alla prova la nostra capacità di resistenza, di perseveranza, la nostra fede e il modo autentico di esprimerla e di sentirla? Come se non ci fosse stata dispiegata tutta quanta la forza della fragilità che ci abita? Un piccolo virus, invisibile, inodore, impercettibile, ha avuto la forza di mettere in ginocchio la vita di tanti e anche dell’economia dei Paesi. Certo, ci siamo messi in ginocchio anche per pregare, non nelle chiese ma nelle case. Ma magari ci fossimo inginocchiati anche davanti al mistero che la vita è, e che tanto ci sorpassa e stupisce. Vita. “Ovvero, cosa facciamo esattamente del nostro essere al mondo. O come lo sprechiamo. Sostantivo sempre seguito da un aggettivo - vita politica, vita amorosa, familiare oppure sprecata, gettata via come cartaccia di gelato sciolto. Decine sono i sentieri che ho percorso per indagare questa nostra parola di sole quattro lettere. Vita” (Andrea Marcolongo). Dunque, non che vita avremo dopo l’emergenza, ma che vita voglio vivere dopo la tempesta. Non avrebbe senso pensare e desiderare che tutto torni come prima perché l’evoluzione è vita che rinnova la vita. È peccato porre ostacoli; peccato mortale non rendere feconde le situazioni. Cosa porterò di me, e di quello che è maturato nel cuore, nel pensiero, alla realtà sociale e di Chiesa che vivo? “Abbiamo immediatamente riorganizzato le attività e ci siamo preoccupati anzitutto di non perdere efficacia operativa e visibilità- scrive don Cristiano Mauri -. Come se la priorità fondamentale fosse il mantenimento dell’istituzione, specie nei suoi riti, nelle sue attività, nel suo incessante trafficare pastorale. Anch’io, peraltro, mi sento balbettare e mi interrogo su cosa stessi facendo, fin qui. Non si riesce a spendere parole profetiche, incarnate, solide, nutrienti. Manca una sapienza, manca «la sapienza». Siamo pieni di parole - io per primo, più di tanti altri - che però continuano a girare in bocca col sapore di consolazioni fast-food, senza scendere a nutrire e dare forza. Mentre il pensiero profondo, la capacità di penetrazione del senso delle cose, l’adesione consapevole, intelligente e responsabile alla realtà, lo slancio spirituale scarseggia. Per fortuna che il Vangelo resta lì, fedele nell’annunciarci che una vita nuova è sempre possibile, pronto ad accogliere le nostre conversioni”. E conversione sia. Conversione sarà se nel frattempo ci sta a cuore il futuro. Conversione spirituale, conversione pastorale, come dice tante volte il Papa. E non sarà stato inutile e passivo questo tempo fragile.
Non sono di conforto le parole "tutto andrà bene” e neanche che “…una epidemia sia come una guerra”, ma scatta la paura che si sia scatenata una tempesta. Abbiamo bisogno di riflettere in profondità e fare tesoro di questa esperienza terribile che stiamo vivendo, perché è molto peggio di una guerra perché sta distruggendo l’intero sistema organizzazione sociale. Una catastrofe che colpisce il mondo intero. Occorre prendere atto di questo gravissimo stato dell'economia e l’intero modo di produzione che ne deriva, che creeranno un lungo periodo di incertezza e di sofferenza. Nulla sarà più come prima, perché anche noi non saremo più gli stessi, tutti saremo cambiati in profondità. Attraverso il dolore e la paura un popolo di semi-adolescenti è diventato adulto di colpo. Poche settimane di lutto e sofferenza ci hanno messi di fronte alla dura realtà della fragile condizione umana. Risulta che abbiamo accettato che le televisioni venissero invase da gente sbraitante e analfabeta, di ogni ridicolo chiacchierone. Perché meravigliarsi di vivere come diceva Re Lear: “idioti che governano un popolo di ciechi.”. Diversi ragazzi sono cresciuti nell’illusione che il benessere fosse un diritto universale e la famiglia e lo stato lo garantissero. Abbiamo sparso a piene mani che la vita fosse come un film di Walt Disney o un luna park. Scopriamo che in quel mondo dorato in superficie si nascondono ingiustizie immani producendo in tutti i Paesi la devastazione della sanità pubblica, lasciando senza protezione le classi più deboli. La pandemia ci insegna che vivere oggi è molto pericoloso. Molti nonni hanno vissuto in epoche in cui la tragedia incombeva in ogni momento sulla loro esistenza e li ha resi più determinati e consapevoli che la vita costa sforzo e fatica e bisogna lottare per migliorare la condizione di tutti. Questa consapevolezza ci permetterà di affrontare la pandemia con nuovo slancio, più solido. Ma non dimentichiamo che l'aiuto di Dio accompagnerà ogni nostro sforzo e la nostra buona volontà.)
Abbiamo ancora davanti agli occhi le immagini di questi mesi, legate all’esplodere dell’epidemia di coronavirus. Città deserte, pazienti intubati negli ospedali, file di bare pronte per i funerali. Ma il contagio ha prodotto anche un altro virus altrettanto devastante: l’ondata di terrore che ha provocato smarrimento e insicurezza in tutta la società. Ad opporsi e a tentare di fare argine, in quei giorni di angoscia, è apparsa improvvisamente una parola d'ordine tanto inattesa quanto rassicurante: “Andrà tutto bene”. Un messaggio di speranza. Lo hanno disegnato i ragazzi delle scuole sui fogli di quaderno incollati ai vetri delle case, lo abbiamo letto sugli striscioni appesi ai balconi, perfino nelle bacheche degli ospedali. Ma non tutti hanno apprezzato l’iniziativa. Alcuni giornali l'hanno aspramente criticata con l’accusa di superficialità, buonismo, scarso rispetto perle vittime dell’epidemia. Eppure non meritava tanta inutile ostilità. Era semplicemente un appello alla fiducia, un invito alla speranza che, senza escludere il sacrosanto sentimento di deferenza per le vittime, invitava ciascuno a lasciare aperto uno spazio interiore per quei sentimenti di condivisione e solidarietà, indispensabili per tenere unita una comunità nei momenti della tragedia. Perché proprio questa era, e resta, la sfida decisiva. Mai come in questo momento, infatti, la lotta contro il male chiama in causa la tenuta interiore dei singoli, la loro capacità, di reagire e vincere la partita. Questo aveva insegnato, nel secolo scorso, il beato Novarese agli ammalati e ai suoi figli spirituali: a prendere possesso della loro profondità interiore e ad averne cura. Lì ha origine la sorgente dalla quale prendono vita la speranza, la fiducia e l’audacia che cambiano la vita. E proprio in questo spazio il credente realizza l’incontro con quell’amore salvifico che novarese scriveva con la maiuscola: Gesù vincitore della morte e risorto. Lui, il Figlio di Dio al quale papa Francesco ha chiesto aiuto contro la pandemia, durante la benedizione Urbi et Orbi il venerdì di quaresima 27 marzo.
La storia dell'umanità è storia di conflitti, epidemie e di pandemie: la peste di Atene, quella di Tebe dell'Edipo di Sofocle, quella ricordata da Giovanni Boccaccio nel Decameron, quella manzoniana dei Promessi Sposi, la Sars , Ebola, l'aviaria e oggi Covid 19.
Freud lo definirebbe un "cigno nero perturbante "nella sua bellezza e tragicità.
In questo periodo lungo e angosciante, abbiamo visto traballare i modelli sociali fin qui imposti e non solo.
I vari virologi, immunologi ed epidemiologi, sono in costante contrasto tra di loro e non ultimo, le finalità sanitarie, sono entrate in rotta di collisione con quelle economiche, didattiche e religiose.
Il contenimento del contagio ci ha chiusi nelle nostre case, gli studenti di ogni ordine e grado hanno sperimentato la didattica a distanza, quando possibile si è lavorato in smart working, tranne negli ospedali dove, turni massacranti hanno visto in prima linea medici, infermieri, operatori sanitari.
Covid 19 ha messo a fuoco la nostra vulnerabilità e la nostra fragilità, facendoci riconoscere il limite umano cui alludeva Giacomo Leopardi nella "Ginestra".
Come Cristiano ho vissuto e vivo in modo singolare tutto questo.Mi sono sentita "orfana"della comunità e mai come in questo periodo ho avvertito il desiderio impellente di una visita in chiesa.
È proprio vero, ci sono cose che impariamo a comprendere proprio quando le perdiamo;questo vale per l'Eucaristia è per l'appartenenza ad una comunità, alla chiesa, anche se a volte, pur frequentandola regolarmente, mi sento un po' clandestina, straniera nella mia stessa casa.
Forse é un modo di sentire che appartiene anche ad altri, ma quando quella porta é chiusa, mi manca ancora di più, ne ho avvertito la nostalgia, il desiderio.
Mi piace pensare che anche il Signore abbia sentito la nostra mancanza, ci ha aspettato come il Padre della parabola, che sulla porta di casa attende che il figlio ritorni.
Mi è mancato l'incontro con la gente, con gli amici, i colleghi, i parenti, ma ho avuto tempo per l'ascolto, compreso quello della Parola. Non so quanti lo abbiano fatto, ma credo sia stata una grande occasione quella che le nostre tavole siano diventate come "altari"su cui si è celebrato.
Ho tanto ascoltato anche la solitudine. Qualcuno ha detto che solo ascoltando la solitudine possiamo vivere autentiche relazioni, perché esse sono grandi, esaltanti al pari dei deserti del mondo, fortunatamente per noi cristiani, abitati da Dio.
Ho anche pensato a quanto sono fortunata, perché Dio è con noi, mentre altri vivono solitudini infinite; è lì che il Signore ci conduce per metterci alla prova e per incontrarci.
Ho accennato prima all'ascolto; non c'è solitudine senza silenzio, senza cioè ascolto.
Il silenzio è verità, carità, è salvaguardia dei momenti di raccoglimento,di consapevolezza, di interiorità. Esserci là dove la vita ci porta per un incontro con il Signore e i fratelli, lasciando che parli al nostro cuore.
Se sapremo fare questo, la paura che ha contagiato il tessuto sociale, che ci ha indotto a riflettere sulla precarietà della vita, sulla provvisorietà delle nostre certezze, se è diventata un invito ad una accresciuta umanità, guidati dalla fede, dalla speranza, sapremo affrontare le tempeste, fiduciosi che quando queste si risolveranno, potremo contemplare con occhi nuovi il viaggio compiuto e l'insegnamento ricevuto.


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